Quando c’è di mezzo un progetto difficile, unire le proprie forze con quelle di un’altra azienda è l’unica soluzione. Come si collabora in questi casi?
Condurre in porto un progetto al quale si è lavorato parecchio arreca molta soddisfazione al proprietario di un’azienda. Tuttavia, come si sa, esistono piani che non possono essere gestiti da un solo soggetto, e i motivi sono disparati. A volte il capitale disponibile non è sufficiente, o non si possiede la competenza necessaria in un determinato campo, oppure ancora mancano gli indotti idonei. Per una sola di queste ragioni, o per tutte insieme, si può decidere di rivolgersi a una o più imprese specializzate per arrivare a un accordo e raggiungere il risultato, sia esso di tipo industriale o commerciale. Questo tipo di patto, che in caso di successo può essere reiterato, viene definito joint venture.
In genere, si arriva alla formazione di una joint venture perché si vuole consolidare la propria posizione in un determinato settore, oppure se ne vogliono esplorare di nuovi, congiungendo conoscenze tecniche, metodi organizzativi e, soprattutto, sforzi economici. È pure una maniera per dividere i rischi di investimento. Quindi, se non potete fare un lavoro autonomamente, chiedete aiuto e ce la farete!
Questo tipo di cooperazione può essere di due generi. Ci sono le joint venture corporations, ovvero gli accordi di tipo societario. I componenti sono detti co-ventures e possono provenire perfino da Paesi differenti. Essi si fanno carico degli oneri (metà per uno o secondo proporzioni prestabilite) e, analogamente, si spartiscono gli utili. Ogni responsabilità è imperniata sulla parte versata. Esistono casi prestigiosi, come quello della società di elettronica giapponese che ha fatto fronte comune con il colosso della telefonia scandinavo. Poi ci sono le più limitate joint ventures contrattuali, le quali puntano in particolare alla realizzazione di un obiettivo comune, ripartendo ovviamente i profitti. È un affare assai praticato in ambito automobilistico, dove accade che si monti il motore di una multinazionale all’interno di una macchina prodotta da un’altra.
Si può diventare co-ventures in due modi. C’è quello orizzontale, in cui i soggetti hanno strutture e capacità similari, così come analoghi sono i beni di cui si occupano; si consorziano perché devono produrre qualcosa che per quantità o dimensioni supera la loro forza singola; l’esempio che rende meglio l’idea è la costruzione articolata di un’autostrada. E poi c’è quello verticale: l’obiettivo comune sussiste, ma ognuno si occupa di un diverso aspetto del progetto, con contributi variabili.
Ovviamente questa tipologia di accordo ha delle regole. Le stabilisce, secondo dei modelli precisi che coinvolgono due parti o anche di più, l’International Trade Center, che poi discende dall’United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) e dalla World Trade Organization (WTO), allo scopo di facilitare gli “incontri” fra piccole e medie imprese, magari appartenenti a nazioni diverse. Ciò, però, vale per il momento solo per joint ventures contrattuali; quelle societarie hanno troppe implicazioni.
Avete mai stretto una joint venture?
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